Insegnare jazz in conservatorio
di Paolo Damiani
La mia prima preoccupazione è quella di entrare in contatto con lo studente, cercando di capire quali motivazioni lo abbiano spinto ad iscriversi al corso. Lo faccio improvvisare suonando insieme, in duo o in un piccolo gruppo, per avviare in lui un processo di autostima, fondamentale per capire se si ha veramente qualcosa da esprimere. Nel contempo, lo aiuto a scrivere una propria composizione il cui punto di partenza può essere stato scoperto insieme, durante la libera improvvisazione.
Questo lavoro può durare anche un intero anno ed è volutamente molto libero, non prevede necessariamente l’uso di metodi o libri di testo, porta a praticare diverse strade, ad ascoltare insieme molta musica, non solo jazz. E’ un lavoro sulla mente e sul corpo, sui processi creativi, sul rapporto con lo strumento, spesso viziato da anni di studi non certo finalizzati alla ricerca del proprio “centro” e dei propri percorsi interiori. Alcuni studenti trovano questo approccio didattico troppo libero e abbandonano il corso. Può risultare sconcertante l’assenza di un “libro di testo”, il venir meno di punti di riferimento, il fatto che esista la possibilità di arrivare in classe e porre questioni di ogni tipo: su un problema armonico, su una difficile trascrizione, su come rendere più seducente una melodia o sviluppare l’improvvisazione in differenti contesti. Oppure lo studente può limitarsi a dialogare, raccontando le sue esperienze o analizzando le scelte musicali operate sino a quel momento.
Questo processo serve ad infondere sicurezza nei propri mezzi e in alcuni casi la relazione a due, docente-studente, tende ad assumere le caratteristiche di un rapporto psicoterapeutico, soprattutto laddove risultano evidenti le difficoltà nell’esprimersi, nell’entrare in rapporto con gli altri, nel mettere in atto un processo di autocoscienza e autoaccettazione.
Spesso, è più utile aiutare gli studenti a riconoscere un narcisismo esasperante o pulsioni autodistruttive, un eccesso di aggressività o la paura del rischio, del vuoto del silenzio che costringerli a imparare a memoria tutti i modi e le scale del perfetto jazzista.
Il mio progetto didattico ha lo scopo di portare lo studente a riconoscere la propria strada, a operare scelte e assumersi responsabilità. Non credo in un insegnamento neutro, preferisco proporre una tendenza, la ricerca della libera invenzione e della poesia nella musica. Per far ciò offro la mia visione del jazz e dell’improvvisazione, della scrittura e della composizione, rispettando naturalmente anche i desideri degli studenti, anzi aiutandoli a scoprire i propri, senza i quali è inutile sperare di poter diventare buoni musicisti.
In un simile contesto, la “scoperta” che in un accordo di settima di dominante l’undicesima aumentata suona “più jazz” di quella giusta assume una valenza imprevedibile, un significato ben diverso dal solito.
Spesso è più utile imparare a non fare che a fare e in tal senso trovo illuminante far ascoltare Monk. Oppure lavorare su Ellington, Gil Evans, Barry Guy, Bruno Tommaso che rappresentano stimoli straordinari per far maturare una personale idea del jazz orchestrale, spesso fuori o contro le regole da manuale. Le quali vengono comunque praticate e studiate, se non altro per non trovarsi successivamente a scoprire l’acqua calda.
I campi d’indagine sono diversi e spesso vengono sovrapposti e con-fusi in quanto nel jazz è del tutto naturale, quando si parla ad esempio di composizione, lavorare anche sull’improvvisazione e viceversa. Le aree di lavoro sono:
a) Composizione:
teoria di base, melos, armonia. Come concepire un tema e armonizzarlo (tecniche diverse), scrittura a due o più parti, la sezione ritmica, gli strumenti dell’orchestra, orchestrazione per piccolo e grande ensemble. Studio del pianoforte, scrittura per pianoforte e organico ampio, analisi di gruppo del materiale composto e registrato dagli allievi.
b) Improvvisazione e musica d’insieme:
studio e memorizzazione di temi e forme della tradizione, la ricerca del “solo”, analisi di strutture contemporanee, la libera improvvisazione in solo e in gruppo, pronuncia e articolazione, suono e silenzio, l’ascolto di sé e dell’altro.
c) Le forme del jazz:
blues, rhythm changes, forme contemporanee e aleatorie, analisi di partiture (Ellington, Golson, Evans, Nestico, Jones, Brookmayer, Gaslini, Tommaso, Schiaffini, Trovesi, Damiani).
d) Storia del jazz:
ascolto e analisi strutturale scritta e orale di brani registrati, trascrizione di temi e assoli, conoscenza dei protagonisti e degli stili principali, tesi su un autore o argomento a scelta.
È necessario aprire i corsi a studenti fortemente motivati, anche se sprovvisti di diploma di Conservatorio. Mentre si frequenta il dipartimento di jazz sarà necessario seguire corsi di ear-training, armonia, elementi di pianoforte, storia della musica, informatica, etc. Sperando che tutto questo avvenga all’interno di una struttura scolastica aperta ove le persone possano scoprire la gioia di fare musica insieme, produrre arte e portarla all’esterno, nelle scuole e nei teatri, nelle piazze e negli ospedali, ovunque sia possibile trovare lo spazio e il tempo per un suono emozionante, nato dall’impegno e nella ricerca quotidiana.