Scritti – tra il noto e l’ignoto, improvvisando

TRA IL NOTO E L’IGNOTO, IMPROVVISANDO

di Paolo Damiani

 

L’improvvisazione è l’insieme di suoni, silenzi, gesti e pensieri rapidi che si scoprono nell’attimo in cui avvengono: nella lezione sulla Rapidità, Italo Calvino definisce la ‘velocità mentale’ un ragionamento istantaneo, senza passaggi”, che mi è sempre sembrano un buon racconto dell’improvvisazione. Improvvisare vuol dire comporre nell’istante, integrando i materiali della musica: suoni e silenzi.

Il pianista americano Frederic Anthony Rzewski chiese un giorno a Steve Lacy, certamente uno dei musicisti più originali del mondo: “Steve, qual è la differenza tra composizione e improvvisazione? – “Nella composizione hai tutto il tempo che vuoi per riflettere su ciò che intendi esprimere in 15 secondi, quando improvvisi non hai che 15 secondi per dire ciò che vuoi”, replicò Steve immediatamente, e la sua risposta durò esattamente 15 secondi!

Non a caso spesso si parla di composizione istantanea, e del resto anche Arnold Schönberg definiva la composizione “un’improvvisazione rallentata”.Questione di tempo, dunque, ma non solo; sono tuttavia convinto che i processi del comporre e dell’improvvisare siano in qualche modo differenti, anche se nel jazz inscenano continue, molteplici interazioni. Innanzitutto, la nozione di composizione non è universale, basta con i luoghi comuni come “ la musica è un linguaggio universale”! Credo che composizione e improvvisazione abbiano assetti cognitivi diversi: comporre è architettare, creare “relazioni d’ordine” in qualche modo coscienti, improvvisare significa intuire ed attingere al proprio inconscio, che io considero la mente, mentre il cervello è il braccio. E tuttavia: corpo e mente sono una cosa sola, spesso le composizioni migliori nascono da fulmineeinconsce intuizioni… Il campo è aperto, non ho risposte né soluzioni, ho solo voluto evocare una problematica. Un’interessante ricerca potrebbe consistere nell’analizzare le registrazioni di improvvisazioni significative nel tentativo di rilevarne gesti compositivi, e viceversa: studiare composizioni per scoprirne le matrici improvvisative, movimenti istantanei che hanno originato sviluppi codificati, o invece rottura di sviluppi formali, fuori uscite, andamenti liberi e imprevedibili, tipici di ogni autentica improvvisazione. Il jazz migliore ha lo stesso rigore della musica contemporanea interamente scritta, inoltre in questa musica spesso il compositore e l’interprete sono la stessa persona, e questo permette di poter creare anche senza il supporto della partitura.

IMPROVVISARE, COME?

Esistono naturalmente molteplici pratiche, ne indicherò soltanto alcune;
– Improvvisazione libera, senza alcun tema né partiture: si sale sul palco e si comincia a suonare, senza aver concordato nulla.
– A partire da un tema, da una melodia: a. Si può sviluppare il tema attraverso variazioni e parafrasi dello
stesso
b. Trasformando il tema e modificandolo fino a renderlo irriconoscibile
– Arrivando a un tema, facendolo precedere da una libera improvvisazione
a. L’improvvisazione tiene conto delle caratteristiche formali del tema ed organizza un processo “logico” per arrivarci
b. L’improvvisazione segue altri parametri e il tema arriva in modo imprevedibile, inatteso.
– Idiomatica , si riferisce a stili conosciuti: jazz, rock, barocco,
contemporaneo etc.
– Non idiomatica, tenta di non rimandare ai diversi stili (ma sarà possibile? Ho qualche dubbio … La distinzione tra idiomatica e non idiomatica si deve al chitarrista inglese Derek Bailey, autore di un testo seminale, intitolato “IMPROVVISAZIONE”, a cui rimando per approfondimenti)
– Concreta, nel senso di figurativa, che in qualche modo evochi immagini condivise.
– Astratta, antifigurativa, fuori da processi narrativi
– Su un pedale, come nel raga indiano
– Su un ritmo, o su una pluralità di ritmi.
– A partire da un’atmosfera data, una sorta di “consegna” decisa a priori. Ad esempio: si comincia pianissimo con suoni brevi e si arriva a suoni lunghi fortissimo, attraverso un graduale crescendo che duri in tutto tre minuti (cinque, otto…)
– Nell’interazione con altri linguaggi, ad esempio:
a. Con un testo, recitato o cantato anche scoperto attraverso forme di scrittura automatica;
b. Con la danza e/o con l’azione teatrale o con la pittura in scena legata alle performance ( ACTION PAINTING );
c. Con l’immagine (video, film etc);
Fino all’insieme mixed-media di linguaggi diversi.

Naturalmente tutte queste tecniche si possono alternare nel corso della stessa performance.

Quando lavoro con gruppi di improvvisazione, indipendentemente dal livello dei partecipanti, di solito preferisco iniziare senza alcuna consegna, semplicemente invitando tutti a suonare e cantare ascoltandosi reciprocamente, cercando di lasciare spazio agli altri. Spesso decido di iniziare il lavoro con pochissimi materiali, da sviluppare insieme nell’ascolto. Si può cominciare anche sfruttando un solo suono, uguale per tutti o no, esplorandolo nei suoi molteplici aspetti: durata, timbro, attacco del suono, dinamica..

Da questo semplice inizio si inventano percorsi di varia natura, non dimenticando di valorizzare il silenzio.

Si discute quindi di quanto accaduto, scegliendo insieme dei parametri su cui improvvisare, per disegnare forme di CAOS controllato. Improvvisando, emergono dei momenti in cui i musicisti “sentono” che sta succedendo qualcosa : è importante allora cercare di comprendere cosa sia accaduto, e tentare di formalizzarlo per inserirlo in una nuova improvvisazione. Il mio ruolo consiste “nel suggerire lo stretto necessario perché l’immaginazione si avveri … la verità può talvolta apparire in teatro, quando per tutti i presenti, un momento ‘suona giusto’. Si sente allora che questa verità è più forte del pensiero”. (Peter Brook)

In altri termini, ogni musicista deve sentirsi libero di proporre qualcosa, senza imposizioni da parte mia. Bisogna incoraggiare tutti ad andare in zone ignote, d’ombra e perciò è meglio evitare di iniziare il lavoro con partiture definite in ogni dettaglio: il brano RARO MOLTEPLICE è nato così, attraverso decine di laboratori che hanno prodotto immagini collettive, messe su carta soltanto dopo, poco a poco.

L’improvvisazione è un’attitudine umana che avviene in tutti i campi della vita, il laboratorio aiuta ad esprimersi senza blocchi, ad aprirsi nell’ascolto di sé e degli altri. Sviluppando la propria capacità di reazione, di attenzione, di fiducia, calore e passione, di lasciarsi andare nel procedere senza una meta, sperimentando e accogliendo gli “errori”, che spesso ci aiutano a scoprire il nuovo.

Molto utile risulta registrare un’improvvisazione e poi riascoltarla, decidendo se c’è qualcosa che possa diventare un elemento di una futura “composizione”: un ritmo, un contrasto, un frammento melodico. Quanto agli organici , vi sono tre possibilità:

– Solo
– Piccolo gruppo
– Grande ensemble

Alcuni sostengono che quando il performer è solo, non si possa parlare di vera improvvisazione, in quanto mancherebbe la componente dell’incontro estemporaneo con l’altro, colui che proponendo eventi sonori imprevisti ti conduca altrove. Ma in realtà l’altro è anche dentro di noi, come diceva Rimbaud:
“ Je est un autre”, io è un altro. Esprimendo così la pluralità del nostro mondo interiore.

Peraltro quando si improvvisa, molte sono le variabili che possono orientare il flusso sonoro, dalle qualità architettoniche e acustiche dello spazio, al tipo di pubblico e al suo grado di attenzione e partecipazione, alla complicità che posso creare con gli ascoltatori. Probabilmente i gruppi migliori sono quelli non troppo numerosi, diciamo da due a cinque/sei, oltre si rischia di perdere il controllo del processo di creazione istantanea e si riducono paradossalmente le possibilità espressive, come se nel mucchio divenisse complicato o impossibile trovare spazio per la propria voce, e mettere in scena chiaramente gli elementi del gioco: ricerca di consonanze o di contrasti, empatia, differenziazione nelle modalità di produzione sonora, di attacco e decadimento del suono, e delle soluzioni timbriche dinamiche e agogiche, delle durate, fino al ruolo del silenzio e del rumore.

Sul piano più generale, il lavoro consiste nel creare forme diverse, che esprimano equilibrio nelle proporzioni e nel rapporto tra unità e diversità, eventuali simmetrie o – all’opposto – un flusso magmatico e indifferenziato di energia.

Aspetti significativi sono anche:
– Il ruolo della memoria, in chi improvvisa e nel pubblico;
– L’alternanza nei caratteri dell’onda sonora (calmo, agitato, molto mosso);
– L’uso sapiente di dinamiche e agogiche;
– La messa in scena di principi compositivi, ad esempio una frase (antecedente) che ispiri una “risposta” (conseguente);
– Equilibri formali, simmetrie;
– Quando si lavora su un tema, elaborarne gli elementi compositivi (intervalli, durate, rapporti pieno-vuoto etc.), fino al carattere e al colore complessivo, anche nei suoi aspetti ritmici ;
– Il coraggio di abbandonare le idee che si stanno sviluppando, se non ci convincono davvero. Bisogna allora cercare nuovi percorsi;
– La ricerca di flussi melodici diversi:
a. Sinusoidale, ondulante (consonante, lirico)
b. Zigzagante (dissonante)
c. Segmentato, drammatico .
Mentre sotto il profilo ritmico si può operare attraverso :
a. Cambi di pulsione e di tempo, di ritmo, di metro, fino all’assenza del metro;
b. Ripetere una medesima formula ritmica (ostinato, groove);
c. Spostare gli accenti, alternare misure regolari e irregolari, aggiungendo o sottraendo valori.

INTERAZIONI

Quando si improvvisa in gruppo, tre sono le possibili interazioni;
1. IMITAZIONE, un musicista propone un’idea che viene ripresa da un altro, attraverso sviluppi come la variazione o la trasformazione progressiva;
2. OPPOSIZIONE, ad un evento se ne contrappone un altro molto diverso, tuttavia l’opposizione può anche risultare complementare, ad esempio associare ad un fraseggio molto denso e frammentato, un ostinato ritmico o un semplice suono pedale;
3. INDIFFERENZA, espressa attraverso il silenzio o la proposta di materiali che non tengano conto di quanto sta accadendo.
Naturalmente queste interazioni devono essere integrate tra loro, per creare un paesaggio sonoro sempre diversificato.
La conduction, ovvero la direzione improvvisata, può avvenire in totale assenza di partiture, semplicemente esprimendo gesti il cui significato sia chiaro a tutti i membri del gruppo.

Io preferisco tuttavia associare ai gesti più comuni (vedi la relativa simbologia in basso a destra nello score di Raro Molteplice), anche una serie di eventi scritti in modo tradizionale, che chiamo semplicemente indicando il numero che contrassegna l’evento stesso: in Raro molteplice gli episodi sono tredici.

Altre grafie sono possibili, per indicare diversità di registri, dinamiche, durate, tempi, metri, ritmi o anche trasformazioni del suono (uso di sordine, soffi, tremoli etc), tipi di andamento melodico con frequenze non definite.

L’improvvisazione vive rinnovandosi sempre, la sua natura è di essere IMPREVEDIBILE (non prevedibile). Difficile quindi definirla. Tentiamo comunque di avventurarci in questo territorio, sapendo che – come ha scritto Vladimir Jankélévic: “la musica rafforza in noi la convinzione che la cosa più importante sia quella che non si può dire”, e approfondisce questo concetto distinguendo tra indicibile e ineffabile: indicibile è “ciò di cui non c’è niente da dire”, inteso come qualcosa di contrario all’etica, ciò che “prostra la ragione”. Egli colloca invece ineffabile in una regione opposta, mentre solitamente questi due termini sono considerati sinonimi: per il filosofo è ciò che è inesprimibile, perché su di esso c’è infinitamente da dire. Interminabilmente. Pensiamo alla poesia o all’amore. Jankélévic aggiunge: “Questo è lo charme, l’incanto, qualcosa che ci rimanda ad altro e che ci porta a cercare”.

Ecco invece cosa scrive Vinko Globokar: “L’improvvisazione è soprattutto il prodotto dell’intuizione, dell’emozione e dell’inconscio, dunque un campo imprevedibile che non può garantire il tipo di risultato che la razionalità richiede. Quando dico razionalità potrei dire compositore o istituzione. Il compositore in genere non ama l’improvvisazione perché non è sua, l’istituzione perché non la può vendere. È una forza vitale che sfugge alla scrittura, il sistema degli anticorpi di una razionalità stabilita. Inietta un soffio vitale in quell’insieme così uggioso che sono i prodotti musicali istituzionali”. Processi quindi, più che prodotti. Nella musica improvvisata, se proprio servono, ci serviamo di scritture descrittive, fluide, liquide, non prescrittive. Nelle performances improvvisate, il pubblico partecipa attivamente ai processi musicali, in qualche modo li orienta.

Io credo che l’arte dell’improvvisare rappresenti la sintesi di due dimensioni, quella sensitiva, o potrei dire sensuale, e quella cognitiva. L’incontro dell’intuizione con la razionalità. Potremmo parlare di strutture mobili, dinamiche, non statiche, con una dimensione temporale e dei ritmi propri.

Nella partitura “Raro Molteplice” ad esempio, c’è un insieme formato da brandelli musicali e simboli condivisi.
Il risultato finale è sempre diverso, ci sono molte variabili e scelte istantanee, sia del Direttore che dei musicisti in funzione del momento, dell’ispirazione, dell’energia del gruppo: si interpretano questi frammenti e ci si improvvisa, possono essere suonati a tempo oppure no. Il direttore disegna gesti nell’aria, che i musicisti devono interpretare e trasformare in suoni.
I movimenti dei suoni vengono meglio se amiamo l’idea che le nostre scelte ci appartengano fino ad un certo punto.

Mi piace l’idea che le mie composizioni vengano in qualche modo stravolte, anche radicalmente, dai musicisti che le eseguono, sia in concerto che durante le registrazioni. Spesso insieme, la musica prende direzioni completamente diverse da quelle previste, e parlerei di un senso di responsabilità collettiva in questo fare.

Vorrei distinguere tre ambiti: quello dell’orecchio, quello della memoria e quello dell’immaginazione. L’orecchio decide, cerca punti di riferimento, è la dimensione fondamentale dell’ascolto. “Ascoltare è cercare di sapere cosa sta per accadere” (Roland Barthes). La memoria è il bagaglio di conoscenze con cui si improvvisa, citando Giancarlo Schiaffini “l’improvvisazione non si improvvisa”: portiamo sul palco tutto quello che abbiamo suonato e ascoltato, immaginato in tutta la vita. Improvvisi con ciò che ricordi e che sai. Miles Davis diceva semplicemente: “l’improvvisazione è andare al di là di ciò che si sa”.

Il terzo ambito, l’immaginazione, permette di concepire suoni senza analizzare, creando immagini immediate, prodotte nell’istante. Altri elementi importanti in questi processi sono l’urgenza, la necessità, il caos, il caso, il rischio, l’errore, che in musica sono idee fondanti.
Analizzando il concetto filosofico di “cogito ergo sum”, Jacques Lacan, andando oltre, ha scritto: “penso dove non sono, dunque sono dove non penso”. Se però l’improvvisazione è l’esserci, l’essenza di questo discorso, potremmo dire: “penso dove non improvviso, dunque improvviso dove non penso”. Non possediamo fino in fondo ciò che suoniamo, e non possediamo il tempo. Tuttalpiù l’istante.

Per improvvisare non basta la creatività, servono comunque regole, tecniche, materiali e obbiettivi. E’ indispensabile valorizzare la componente cognitiva del corpo, dei sensi, andare verso un sistema di affetti che superi la dicotomia tra emozione e sentimento.

Ripenso a Peter Brook, che ho avuto la fortuna di conoscere a Parigi: “in ogni istante il noto e l’ignoto, il quotidiano e l’inatteso coesistono”.

Spesso si sente dire che la musica è un linguaggio universale: nulla di più banale e falso. Io penso che la musica sia una qualità di linguaggio che si manifesta in modi e generi diversi, tutti di pari dignità: improvvisare è il primo passo per fare musica, imparare ad ascoltarla e a comprenderla.