JAZZ COME PROCESSO INTERCULTURALE
di PAOLO DAMIANI
“Il pluringuismo non significa soltanto il possesso di più sistemi, ciascuno dei quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema, impedendogli di essere omogeneo. Non si tratta di parlare come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario di parlare nella propria lingua come uno straniero” (Gilles Deleuze, Claire Parnet “Conversazioni”).
“Sarei felice se ciò che suoniamo fosse semplicemente chiamato musica” (Charlie Parker).
Sin dal nome, il jazz è vago. Jasm in America vuol dire forza, esaltazione … ma secondo Dizzy Gillespie jasi, proveniente dall’Africa, significa vivere sotto pressione, secondo ritmi accelerati. Vi sono poi diverse altre possibili radici del termine, che resta ambiguo e in definitiva magnificamente intraducibile.
Pare che il jazz – nato negli Stati Uniti più di un secolo fa (qualche secolo fa?) – sia un genere musicale d’arte che si è da tempo diffuso in tutto il mondo e che rappresenta un caso straordinario di processo interculturale e di sincretismo tra le radici africane e le musiche europee che venivano suonate in America. Il suo sviluppo passa attraverso varie opposizioni di complementarità e tensioni tra opposti: nero-bianco, africa-europa, cultura dominante-cultura dominata, tradizione orale-tradizione scritta, intelletto-emozione, forme chiuse-forme aperte, composizione-improvvisazione, semplice-complesso.
Sia come sia, il jazz viene ormai considerato da molti come il linguaggio musicale più innovativo del xx secolo.
Non è questa la sede per avventurarsi in vani tentativi di definirne la natura “colta” o “popolare”, diremo solo che gli artisti in generale non amano le definizioni e rifiutano di essere etichettati, percependo ogni volontà di circoscrivere il proprio campo d’azione come un tentativo di controllo.
In questa musica il valore fondante è la phoné, la grana della voce, il timbro: ciò che rende unico e riconoscibile ogni singolo strumentista o cantante, ogni gruppo o orchestra.
“Nel jazz la dimensione sonora è un elemento strutturale, anzi è il momento fondante del linguaggio, l’incipit dell’articolazione frastica e quindi anche della parte ritmica. L’importanza del suono è centrale nel fraseggio dei musicisti e in genere si modella intorno a un’idea timbrica altamente rappresentativa della loro personalità artistica” (Maurizio Franco, “Il jazz e il suo linguaggio”).
Rispetto al mondo accademico molto diverse appaiono infatti le tecniche di produzione di suoni e ritmi, spesso c’è uno scarto evidente tra la musica e la sua scrittura. Parametri come frequenza e durata – per non parlare del timbro, per sua natura non scrivibile – appaiono “incerti”, velati, vaghi. Le note sono spesso raggiunte attraverso altre note, o piccoli glissati ascendenti o discendenti, le durate sono interpretate, così come gli accenti e il modo di “stare sul tempo”.
A tutto questo alludono Deleuze e Parnet, quando raccontano dell’arte “di parlare nella propria lingua come uno straniero”.
Per tutto questo Parker – e con lui Ellington, Monk, Mingus, Taylor e molti altri – ha preso le distanze dal termine “jazz”, sentito come una prigione nella quale la cultura dominante ha tentato di incasellare musiche indefinibili, instabili perché nate da uno spaesamento. Lo stesso che peraltro vivono i musicisti bianchi europei “che, immersi nella cultura ufficiale, hanno scelto di denunciare un sistema culturale, un’ideologia e di fabbricarsi una contro-cultura; di qui il carattere composito, misto delle loro produzioni musicali” (Philippe Carles, “Il jazz”).
E’ ancora Philippe Carles a ricordarci che “il jazz non è musica ecumenica, è musica di divisioni, di tensioni irrisolte, di ferite non rimarginate … il jazz non si fa omologare, non è fatto di incroci né di sintesi ma semmai di conflitto tra influenze e culture diverse, la dominante e la dominata: quest’ultima può resistere alla prima soltanto accentuando le proprie differenze”. (“Free jazz, black power”).
Ecco riaffiorare il campo di tensioni tra opposti, terreno fertile ove il jazz è nato e cresciuto, tra sincretismi e divisioni.
E, come si sa, tra Africa, Europa e Stati Uniti . Musica meticcia quindi, promiscua. C’è molto di più, allora, che non la semplice contrapposizione tra due soli elementi; i suoni in gioco provengono fin dalle origini da molti luoghi: pezzi diversi d’Africa e d’Europa (Francia, Spagna, Inghilterra, Italia, Irlanda …) ma anche dai Caraibi e dal Messico.
E a con-fondersi ci sono le musiche africane e l’opera, il ragtime e le bande militari, il tango e il bolero, il raga e lo spanish tinge, il blues e gli inni religiosi. Echi di tutti questi contributi attraversano l’intera storia del jazz e danno vita anche a scuole nazionali: in Italia ad esempio, musicisti come Mario Schiano, Marcello Melis, Paolo Fresu, l’Italian Instabile Orchestra, Gianluigi Trovesi, Antonello Salis, e molti altri, hanno elaborato sin dagli anni ’70 suggestive ipotesi interculturali tra le tradizioni etniche di area mediterranea e le sperimentazioni più radicali legate al free jazz e alle avanguardie eurocolte. Il bordone delle launeddas “funziona” quanto il blues! Affiora l’inquietante demenziale domanda: sarà (ancora) jazz?
Come ha ben documentato Luigi Onori in “Jazz e Africa”, esistono “rapporti espliciti e manifesti tra jazz e madre Africa, intesi come quell’insieme di composizioni e improvvisazioni, di suite, di brani da ballo e da ascolto che nei decenni del jazz hanno, con piena coscienza, fatto riferimento all’Africa, alla deportazione, al suo immaginario, ai suoi valori, alle sue forme espressive”.
E certo molto resta dell’Africa nel gesto improvviso, nell’interplay, nel rapporto con il pubblico, nella capacità di costruire insieme la musica rituale di una comunità dai contorni mobili, permeabili.
Per dirla con Butch Morris, “la sfida è di andare in un posto che non sei tu, e di ricordare perché sei qui”. Inter, dunque, non solo culturale ma anche temporale: il passato e il futuro, la tradizione e il divenire che si esprime nell’attuale, in ciò che stiamo diventando.
Quello che trovo interessante è proprio questo continuo movimento, che porta il jazz fuori da se stesso, verso l’Altro: come dopo un terremoto, i margini si confondono e ciò che era prossimo si allontana. Emergono nuove frontiere da valicare.
Ricerca intertestuale e interdisciplinare quindi, verso un sapere dei confini ove i diversi linguaggi e discipline si smarriscono, perdendo le proprie specificità. Abbiamo già rilevato lo scarto tra il jazz e la sua scrittura, Scarto è ciò che elimino ma è anche lo scarto del cavallo, la distanza tra due entità, il mancato rispetto delle regole.
Scarto è l’errore (che freudianamente rappresenta un’intenzione), e chi suona o ascolta jazz sa quanto questa dimensione possa divenire feconda. Può darsi che il jazz sia un puledro imbizzarrito, sia lo scarto della cultura musicale accademica, il suo inconscio, la follia del non scrivibile, ciò che letteralmente è fuori dalla carta e non è riducibile a Logos.
Ma il musicista di jazz, l’artista, crea passaggi tra zone distanti e dunque mette in relazione le diverse opposizioni di complementarità: i confini tra razionale e irrazionale, o tra scrivibile e non scrivibile divengono mobili, aperti, vanificando presunte dicotomie tra opposti o tra linguaggi diversi.
Un esempio in tal senso è rappresentato dalla création “charmediterranéen”, realizzata tra il 2000 e il 2002 dall’Orchestra Nazionale Francese di Jazz (ONJ), e concernente il rapporto – nel segno del Mediterraneo – tra musica e immagini: l’orchestra interagiva con le splendide foto di Roberto Masotti ed altri autori, ospiti il clarinettista Gianluigi Trovesi e il solista tunisino di oud, Anouar Brahem. La prima assoluta si è svolta nel 2001 presso il prestigioso teatro parigino Les Bouffes du Nord, diretto da Peter Brook.
Nel jazz un evento anomalo – “l’oggetto che scarta”, direbbe Goriano Rugi – è spesso quello cercato, fondamenta di nuove ipotesi narrative. E questo oggetto lo si trova spesso nel movimento, verso altre culture e diversi linguaggi, nonché parlando il proprio linguaggio come uno straniero.
Duplice accezione di scartamento ridotto: da un lato la modesta deviazione dalla strada maestra, il rischio calcolato e sotto controllo. Dall’altro, la ridotta distanza tra diverse culture e generi musicali, il meticciato fertile.
Nel primo caso il jazz ricalca se stesso, la tradizione ti soffoca e prevale la paura dell’ignoto, del salto nel vuoto. Nel secondo, il jazz è un campo da esplorare, – mettendolo in rotta di collisione con altre musiche e altre arti – e da confondere creativamente, con immaginazione e giocando con i limiti.
Il limite nello spazio determina la fine di qualcosa e l’inizio di altro.
Il limite nel tempo è l’attimo, il presente che un attimo dopo non è più.
Jazz è un limite, ma non solo e non più nel senso in cui lo percepivano Parker e gli altri: una prigione, imposta da altri, in cui essere schedati. Oggi il jazz è una splendida possibilità, è anche il coraggio di creare dei limiti, di edificare i bordi di un territorio, e poi smantellarli grazie a incontri apparentemente improbabili e invece spesso quanto mai fecondi.
Questo giocare con le differenze è reso possibile da un atteggiamento di grande apertura e disponibilità verso l’altro, e anche dalle straordinarie risorse dell’arte dell’improvvisazione.
Musicisti distanti per generazione, cultura, generi musicali, si ascoltano e interagiscono creando il nuovo: tra gli esempi più recenti, penso a Ornette Coleman con le launeddas sarde, Cecil Taylor con l’Instabile, Butch Morris con l’Orchestra Regionale Toscana.
Ma prima, come dimenticare Ellington, Mingus, Coltrane Don Cherry, Roach, Gil Evans, Sun Ra, Carla Bley, Gianluigi Trovesi, Paolo Fresu, Giorgio Gaslini, Giancarlo Schiaffini, Michel Portal, Keith Tippett, Misha Mengelberg, Barry Guy, Mathias Ruegg, Louis Sclavis, Randy Weston?
Questi e molti altri artisti hanno inventato inedite aperture nel corpo del linguaggio jazz, permettendone originali evoluzioni nel segno dell’incrocio tra generi diversi, tra mondi in teoria molto distanti.
Come ha detto Vinko Globokar “L’improvvisazione è una forza vitale che sfugge alla scrittura, nel senso lato del termine. E’ il sistema degli anticorpi di una razionalità prestabilita”
Nel corso della storia, ogni civiltà musicale ha conosciuto quell’insieme di pratiche immemorabili chiamate oggi per semplicità Improvvisazione. Improvvisare è certamente il modo più antico di far musica, tuttavia su quest’arte misteriosa, gli studi musicologici di qualità sotto il profilo scientifico sono apparsi soltanto negli ultimi trenta anni.
Le ragioni di questo fenomeno sono vaste e complesse, certo è che, con l’avvento della scrittura musicale, si è progressivamente perduto ciò che non poteva essere codificato. La dicotomia tra composizione e improvvisazione si è risolta a tutto vantaggio della prima, almeno nelle Accademie d’occidente: una contrapposizione falsa e artificiale, in base alla quale ciò che è scritto è cultura alta e ciò che è orale è cultura bassa, indegna di essere praticata e analizzata.
Pregiudizi eurocentrici duri a morire: e a poco vale ricordare che Messiaen e J. S. Bach furono improvvisatori eccelsi, e che in molte culture le definizioni di composizione e improvvisazione non esistono, non possono neanche essere nominate.
Vorrei invece affrontare la questione del punto di vista del musicista che sa improvvisare, di chi sale spesso su un palco esprimendosi anche grazie all’improvvisazione. Notiamo subito che ogni definizione appare parziale, inadeguata e arbitraria, a causa della vastità del campo d’azione e da pratiche anche molto distanti tra loro.
Di sicuro, l’improvvisazione non si improvvisa, quando ascoltiamo un buon performer, sentiamo chiaramente ciò che lo ha musicalmente nutrito, la sua storia e i suoi percorsi.
“L’improvvisazione sviluppa un’estetica dell’imprevisto. Ma la sensazione di imprevisto non nasce dal nulla, è a partire da un quadro di riferimento che può manifestarsi la sorpresa: è il quadro che permette all’imprevisto di acquistare un senso musicale per contrasto, e rispetto alla relazione che stabilisce con il prevedibile” (Jacques Siron, Enciclopedia Einaudi).
In ogni caso, che l’improvvisazione sia idiomatica, si riferisca cioè a uno stile, o libera da modelli, l’artista dovrebbe esprimere un alto grado di “libertà, di fluidità, di mobilità, d’immaginazione, di “delirio”, secondo Siron. Siamo d’accordo; ma come?
Comporre e interpretare avvengono contemporaneamente, e nello stesso musicista; è un gesto che succede nell’istante, gli esiti del processo sono ignoti prima e non possono mai darsi due improvvisazioni identiche. L’apprendimento avviene sul campo, per prove ed errori, e si sviluppa nell’azione.
C’è pensiero in questo fare? Non solo, direi che c’è reazione a ciò che accade nell’attimo, ogni elemento del racconto dialoga con ciò che è appena avvenuto e orienta i suoni successivi; la musica suggerisce diverse possibilità di sviluppo, l’atteggiamento più fecondo è quello di ascoltare profondamente e lasciarsi guidare dall’intuito, senza rigidità eccessive e pronti a recarsi ovunque.
Nel momento della performance, c’è un coinvolgimento tra corpo e strumento: un pensiero rapido, allora “urgente”. Un sapere nel mentre si fa.
Dalla sua fondazione, avvenuta nel 1530, le Collège de France ha come missione principale non già di trasmettere saperi certi e definiti, ma piuttosto di insegnare le savoir en train de se faire.
Oltre alle 52 cattedre istituzionali che ricoprono un vasto insieme di discipline, ogni anno vengono istituite due cattedre, una di innovazione tecnologica, e una di creazione artistica. Quest’ultima nel 2007 è stata affidata al noto compositore Pascal Dusapin, che nella lezione inaugurale ha espresso concetti sul comporre che mi sembrano perfetti per ragionare sull’improvvisazione e sul “sapere nel mentre si fa, mentre accade”. Dusapin è interessante non solo perché è un eccellente compositore ma anche perché, allievo di Xenakis, nel parlare di musica spesso si serve di immagini rubate all’architettura.
Tra le altre: come può un edificio moderno integrarsi in una preesistenza antica? Come alterare una simmetria o desincronizzare le linee di un volume? Come passare da una melodia acuta ad un’altra più grave, e associare il tutto a sonorità più complesse, come cambiare ritmo, magari riducendo la massa di un’orchestrazione accelerando la velocità? E che vuol dire in musica angolo, volume, linea, massa?
Questi pensieri sulla composizione raccontano egregiamente anche certe modalità di funzionamento del jazz e dell’improvvisazione, il che è naturale visto che composizione e improvvisazione rappresentano due facce della stessa medaglia. L’edificio sonoro si costruisce con logica e intuito, istinto e solide fondamenta: ma è fatto di suoni e silenzi, d’aria che vibra, non di mattoni e cemento armato.
L’improvvisazione esiste da sempre, e perciò non ha bisogno di argomenti che ne giustifichino la propria legittimità. E tuttavia le cose cambiano quando la dobbiamo insegnare, quando dobbiamo sperimentare “la creazione nel suo farsi”.
Forse non possiamo dar conto dell’invenzione, di come un’idea appare, ma si può evidenziare un andamento e una sequenza di decisioni. Questo percorso può essere predeterminato, nella mente o su carta, o analizzato a posteriori grazie all’ascolto del materiale registrato. Il testo è il corpo, come amava ripetere Carmelo Bene, ma è anche la registrazione della performance improvvisata, essa “fa testo”, per la messa in luce dei percorsi improvvisativi soggiacenti: descrivere l’opera non è inventare, ma serve anche per nuove creazioni, questo è certo.
L’improvvisazione non parte dal nulla, l’artista è sempre in bilico tra memoria e necessità di oblio, e ci vuole il rigore di un Peter Brook per “distinguere tra le intuizioni che conducono alla verità e le emozioni che sono frutto dell’indulgenza verso se stessi”. Chi improvvisa è autore e interprete al tempo stesso, si tratta di dare senso ai suoni e a ciò che sta tra i suoni; in tutto questo il ruolo degli ascoltatori è decisivo, musicisti e pubblico sono una comunità che inventa insieme il concerto, gli dà forma e colore. Anche lo spazio è fondamentale, rappresenta uno strumento decisivo per la riuscita dell’evento: acustica, luce, colore, temperatura, linea di fuga, disposizione di pubblico e artisti, il suono nello spazio, e come parole e suoni ci rimbalzano dentro.
Quanto servono idee prestabilite, per un’ improvvisazione? Un’idea può essere una composizione da trasformare o anche una dinamica da esplorare, o la semplice necessità di creare energia, suoni mobili in andamenti lineari o interrotti, agevoli o impervi, sul filo del burrone o verso l’eccesso. Posso accumulare molti materiali densi e eterogenei, metterli vicino e poi lavorare per sottrazione fino a disegnare un percorso che abbia un qualche riconoscibile disegno, un colore, un ritmo, eliminando tutto ciò che “suona” superfluo, incongruo. Emergono forme che diventano riconoscibili, magari dopo diversi concerti, o prove con se stessi e con altri. Cerchi di eliminare i luoghi comuni, i trucchi, i cliché e vai nell’inesplorato, nell’inconscio, per trovare un’immagine convincente, dei momenti veri emersi al di là del testo, nella relazione con te stesso o con altri musicisti, e con la platea.
Musicisti e pubblico (si)ascoltano, Roland Barthes ci ha insegnato che “ascoltare è cercare di sapere ciò che sta per accadere…. L’ascolto parla”. Insieme si crea qualcosa nell’attimo, nel mentre si fa. Fino all’istante in cui anche l’ultimo suono svanisce e non torna più. C’è silenzio prima e dopo, e in mezzo istanti di suoni che spariscono appena ascoltati. Quando si ascolta un brano composto, si cerca di (ri)trovare i margini di una forma che già esiste; quando si ascolta un’improvvisazione, si assiste a una forma che si fa in quel momento, ecco la forma formante di Luigi Pareyson: “Se ogni operazione è sempre formativa, nel senso che non riesce ad essere se stessa senza il formare, invece l’operazione artistica è formazione, nel senso che in essa il pensare e l’agire intervengono esclusivamente per renderla possibile. L’operazione artistica è un processo di invenzione e produzione esercitato non per realizzare opere speculative o pratiche, ma solo per se stesso: formare per formare, perseguendo unicamente la forma per sé stessa: “l’arte è pura formatività”. E non basta: “… Formare dunque significa fare, ma un tal fare che mentre fa, inventa il modo di fare. Si tratta di fare, senza che il modo di fare sia predeterminato e imposto: lo si deve trovare facendo, e solo facendo si può giungere a scoprirlo, si tratta d’inventarlo, senza di che l’opera fallisce”. (L. Pareyson, Estetica)
In pratica l’opera scopre le proprie regole e nell’improvvisazione le scopre nell’hic et nunc, mentre avviene: ecco il fare che inventa “il modo in cui il da farsi si lascia fare”.
Prima, non sappiamo cosa faremo, non c’è una forma nella nostra mente. Quando ci si avventura nell’opera, lentamente le cose affiorano, vengono alla luce. Potremmo affermare che non so cosa cerco, ma quando lo trovo lo riconosco. Quando cerco tuttavia non mi muovo al buio ma sempre all’interno di un campo di possibilità, la forma formante si autogenera passo dopo passo mentre l’artista asseconda questo flusso per dominarlo e per ascoltarne le suggestioni da elaborare.
Spesso conviene attendere nel silenzio, per trovare. È Dusapin a ricordarci che, comunque, “ascoltare un’opera musicale non è un lavoro di esperti in previsioni”. Vuol dire che anche nell’ascolto dovremmo lasciarci andare e aprirci al possibile, a ciò che non siamo in grado di prevedere o di immaginare. I buoni improvvisatori cercano sempre di creare scarti e distanze da modelli prestabiliti, da forme formate; in questo senso l’artista deve essere infedele, tiene conto del passato ma lo trasforma in altro, non si limita a replicarlo.
Al di là dell’idea di partenza – che può esserci o meno – ciò che conta è il desiderio e la necessità di azione, di messa in movimento, un’intuizione dinamica. Certo, servono una tecnica strumentale eccellente e un bagaglio teorico di prima qualità.
Quando compongo cerco nel tempo, tanto tempo, di disegnare una forma. Quando improvviso, il tempo è quello della performance, che si aggiunge al molto tempo in cui ho improvvisato.
Comporre e improvvisare vuol dire creare limiti, frontiere: là sono stabilite per sempre, lì sono volutamente mobili, cangianti. Sono ambedue processi nel tempo, complementari e interdipendenti.
Non a caso chi improvvisa parla di composizione istantanea, che permette di valorizzare tutto ciò che nella musica non può essere scritto, quella dimensione che il musicologo Vincenzo Caporaletti ha definito audiottattile nel suo seminale testo La definizione dello swing.
Le musiche basate sul principio formativo audiotattile, e tra queste in particolare quelle che diventano testo nella registrazione sonora, presentano nella loro fenomenologia determinati assunti assolutamente condivisi da musicisti di aree diverse. In questo senso, le pratiche cosiddette popular sono comprese nella specificità dell’esperienza audiotattile. Io stesso del resto, già diversi anni fa ho parlato dell’improvvisazione come di quel gesto che sintetizza in un unico istante/istinto creativo, le fasi che caratterizzano i processi del comporre: conoscenza, pensiero, decisione (questa definizione è recentemente entrata anche nelle Indicazioni per la Scuola.
Alla base della storiografia jazz e popular soggiace lo stesso impianto teoretico, in quanto le condizioni fenomenologiche della operatività ideativa-esecutiva musicale sono simili, al di là delle ovvie differenze di linguaggio.
Tra le accezioni di formatività audiotattile, per esempio, è particolarmente significativo il fatto che in queste musiche la creatività corporea primaria prevale sul testo, inteso come norma della composizione, e che il performer si trova di fronte ad un modello di produzione segnica che non è né completamente “orale” (come per le musiche tradizionali) né dipendente dalla tradizione d’arte occidentale, ma è una sintesi di entrambi: appunto, “audiotattile”.
L’improvvisazione è comunque anti-accademica per definizione, sfugge ad analisi troppo minuziose perché è in continua trasformazione, come se ogni descrizione non riuscisse a cogliere l’essenza di quanto avvenuto. Un approccio soltanto strettamente tecnico è in ogni caso sconsigliabile, perché non coglie l’essenza dell’intuizione; e ciò è tanto più valido se parliamo di insegnamento: “Meglio cercare di infondere negli allievi un buon grado di fiducia per provare ad affrontare ciò che vogliono fare, prima di sapere come farlo” (Derek Bailey).
L’improvvisazione infatti richiede una certa fiducia in se stessi, ciò che manca alla maggior parte dei musicisti cosiddetti classici. Per costoro, l’approccio migliore è spesso quello “per espansione”, preferibile a quello su forme prestabilite. Nell’espansione la forma si autogenera, e ci sono meno regole da osservare di quelle inevitabili nell’improvvisazione idiomatica.
Potremmo definire quest’ultima come un processo di variazione a partire da stili ormai storicizzati che presuppongono idiomi di riferimento, tecniche e pratiche acquisite. In questo caso c’è un modello prestabilito che identifica il brano, “… le cui caratteristiche differiscono molto a seconda che si tratti di musiche a flusso ritmico libero, non misurato, o che prevedano un metro preciso” (Simha Arom, L’improvisation dans les musiques de tradition orale).
C’è poi il campo dell’improvvisazione – composizione, in cui l’opera ha tratti di assoluta originalità e una sua precisa identità. “In questo caso l’opera non è la realizzazione di un modello ma può basarsi su sistemi modali che funzionano come “quadro” della composizione”. (Jean Molino, Cos’è l’oralità musicale? Einaudi)
L’improvvisazione insomma appare come una terra di mezzo tra riproduzione/interpretazione e immaginazione/creazione. È composta nell’attimo, applicando regole più o meno codificate e dove “… l’imprevisto viene percepito come tale grazie all’esistenza di un riferimento stabile: in altri termini di un modello. Cos’è un modello? E’ una rappresentazione scritta o mentale dotata di realtà acustica, in quanto fatta di suoni, modi, ritmi, gesti tecnici che il musicista ha assimilato e che riorganizza nel corso della performance” (Bernard Lortat-Jacob, L’improvisation dans les musiques de tradition orale).
Vedo un nesso preciso tra formazione e improvvisazione, se vogliamo superare i limiti dei metodi trasmessivi di insegnamento, responsabili della separazione tra musica e scuola, tra arte e conoscenza. L’intuizione percettiva è conoscenza in quanto tale, non è il primo grado della conoscenza analitica; la conoscenza immediata avviene nell’hic et nunc, come nell’improvvisazione. E, con Pareyson, potremmo accogliere l’idea di un’attività educativa come “puro tentare”, azione non priva di ragione ma “esercizio di una razionalità non deduttiva” (Enrico Bottero).
L’educazione è un’attività pratica, si apprende attraverso l’esperienza di un fare orientato a uno scopo, ben sapendo che la forma finale è importante quanto l’azione che l’ha generata, il processo del fare.
Percorso arduo, circolare e fatto di intoppi, proposte impreviste che ci spostano dal ragionamento: “bisogna essere capaci di prendersi cura della natura relazionale del nostro essere, di realizzare che non c’è Io senza te e senza noi” (Laura Formenti).
E ci vuole molto rigore, in questo tentare sempre di trasgredire il codice linguistico facendo leva sul tatto e sul gesto, che sono materie fondanti. Il pensiero e l’azione sono simultanei.
Ogni evento è significante in sé, non solo per le sue relazioni con il resto dell’opera: L’idea deve essere sempre mobile, fluida, aperta, suscettibile di andare in direzioni diverse, oltre il “limite tra il noto e l’ignoto” (Steve Lacy).
Steve lo ha spiegato bene, ciò che si prepara prima (la composizione) ha valore anche in quanto ci permette di fare un salto nell’ignoto, e trovare altro.
Vincenzo Caporaletti, nel suo fondamentale trattato del 2005 I processi improvvisativi nella musica, ha ben illustrato come molte delle definizioni che vengono elaborate per raccontare l’improvvisazione “ruotano attorno alla tripolarità costituita dai concetti di processo/prodotto/regole sistematiche. L’attività poietica, il fare musicale (processo) che si svolge nel flusso temporale esistenzialmente connotato si concreta in un risultato, in forma sensibile (prodotto) che presuppone dalle norme strutturanti (regole) in base alle quali assume la propria organizzazione morfologica”. Come sappiamo, Caporaletti ha individuato nel Principio Audiotattile (PAT) un “medium che dà luogo a una modulazione fisico-gestuale di energie sonore, agendo in modo determinante ai fini della strutturazione del testo musicale”.
Possiamo dire allora che il gesto prevale sul testo, quest’ultimo viene utilizzato come fonte di trasformazione e, nella performance, assume sembianze sempre diverse in funzione delle energie messe in moto dal PAT. Come abbiamo già notato, questa prassi comporta una certa dose di rischio, l’azione prevede un elevato numero di incognite.
L’esperienza dell’Italian Instabile Orchestra è in tal senso paradigmatica, sin dal nome. L’Instabilità come valore, poetica del rischio esercitata sistematicamente. Elogio dell’imprevisto, se è vero che la prevedibilità di un avvenimento è inversamente proporzionale al suo contenuto informativo. Con l’Orchestra utilizziamo un sistema misto, che prevede il ricorso a partiture anche molto dettagliate ma sempre reintegrate alla luce di ciò che avviene in quel luogo e in quel momento. Lo score non è vissuto come sequenza rigida di sezioni immobili ma come percorso libero da reinventare continuamente.
Queste sono le parole, resta da scrivere il libro, il racconto di Eros e Thanatos.
E in effetti l’improvvisazione ha a che vedere con la morte, e con l’amore: l’esperienza degli altri non può essere condivisa e vissuta come un’esperienza nostra. Solo che, mentre non si impara a morire, si può apprendere ad amare e a improvvisare, e anche a far morire un’improvvisazione nel migliore dei modi: ma questa è un’altra storia.